Quei miei tonfi densi cumuli di pensieri
"...è la mia peculiare malinconia
composta da elementi diversi, quintessenza
di varie sostanze , e più precisamente di
tanti differenti esperienze di viaggi
durante i quali quel perpetuo ruminare mi
ha sprofondato in una capricciosissima tristezza.
Non è una malinconia compatta e opaca,d unque,
ma un velo di particelle minutissime d'umori e sensazioni, un pulviscolo d'atomi come tutto ciò che costituisce l'ultima sostanza della molteplicità delle cose."
(Italo Calvino, da "Lezioni americane)
I
"Più di una volta ho visto lo splendido sole del mattino
blandire le cime dei monti con sovrano sguardo,
baciare con raggiante volto i verdi prati,
inondare i pallidi ruscelli di magica alchimia..."
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“Abbassa il finestrino”.
“Scusa, stavo solo sentendo se fa caldo fuori”.
“Sì, ma se apri entra polvere”.
Zitti, avvolti nel solito silenzio che avvolge la macchina quando ingoiamo chilometri di strada. Il mio sguardo tocca un punto lontano, cercando un qualsiasi pensiero da esternare. Mi sento un sarcofago, seduta dietro la cintura che stringe il mio petto e quasi sembra che stringa anche la mia mente.
“Hai fatto colazione stamattina?”.
“Sì, ho bevuto una tazza di latte”.
E poi di nuovo silenzio, tanto buio, eppure guardo fuori dal finestrino e il sole splende.
“Che bella giornata oggi! Proprio calda. Si sente l’odore della primavera! Adoro questi primi raggi di marzo così tiepidi!”. “Sì, è vero”.
“Senti, ferma la macchina!”.
Nell’aria si ripercuote il suono delle gomme che strisciano sull’asfalto. Sembra che l’aria, insieme all’odore lontano delle corolle di pesco che sbocciano al sole, porti anche il profumo bruciato della nostra frenata.
“Cos’è successo? Cos’hai?”.
“Stai calmo… Come sei buffo! E come sei tenero quando ti preoccupi per me. Dai, spegni tutto e scendi!”.
Senza neanche aspettare che mi dia una risposta ecco che la mia portiera è già aperta, e sono lì, sul prato, a correre e saltare come una bambina. E Lorenzo è lì, dietro di me, anche se il suo volto assume quell’espressione un po’ corrucciata che ha sempre quando deve assecondarmi nel mio modo di fare.
Lo conosco. Anche se sulla sua fronte bruna nasce quella ruga che lo fa sembrare adirato, in realtà i suoi occhi brillano ogni qual volta riusciamo ad abbattere il muro della convenzione. No, non siamo fatti per essere dei normali innamorati. I nostri baci non nascono quando devono nascere, non sono schiavi della routine, del tempo che passa e ristagna nella vita… Non c’è cosa che mi fa più paura che essere schiava di me stessa, di un tempo che passa e in realtà non passa mai, perché ogni giorno nasce e muore uguale a sé. Cerco di emozionarmi per quell’uccellino che imprudente ci attraversa la strada, per quel fiorellino che è nato sul ciglio della strada e respira l’asfalto e la polvere, per quella nuvola che birichina si distingue dalle altre perché sembra un canguro o un feroce drago cinese.
“Lorenzo, vieni, abbracciami”.
Lorenzo mi accarezza i capelli un po’ troppo lunghi, mi sistema quel ciuffo che non vuole stare fermo e respirando a grandi bocconi l’aria riscaldata dal sole mi bacia. Mi sento leggera quando mi stringe, così inconsistente che temo di volare via da un momento all’altro come una piccola piuma bianca. Forse è questa la reazione che provoca la felicità, quella di sentirsi così fragili perché si teme di dipendere da essa più che da ogni altra cosa. E io aborrisco ogni dipendenza.
“Beba, rientriamo in macchina ora, non arriviamo più, se no”.
“No, non voglio salire in macchina”.
“E perché?”.
“Perché mentre guidi non possiamo stare insieme…”.
“Dai, non fare la scema!”.
Mi lascia la mano, e così, su quell’alito in cui muore la sua ultima parola, sembra morire pure la nostra gioia. Mi prende un senso di claustrofobia quando risalgo in macchina. Mi accomodo sul mio sedile come il prigioniero che ritorna in cella dopo un’ora di libertà. Ma questa volta sono sempre più convinta a non permettere che l’abitudine innalzi muri tra di noi. Io voglio vivere, e vivere con lui.
Oggi andiamo a trovare una mia compagna di liceo che si è trasferita per frequentare l’università. La nostra calda e sanguigna terra spesso perde i suoi figlioli, che sono costretti a lasciarla per coltivare i propri sogni. Le mie mani non riescono a riposare calme sul mio grembo. Ecco che corrono sul suo naso, ora galoppano tra i suoi capelli arricciati e poi sul suo collo che si intravede, furbetto, nel colletto ben stirato della camicia celeste. Lorenzo sorride, poi ride, poi torce il collo per il fugace brivido di solletico.
Ecco, siamo arrivati. Mille sorrisi vuoti, e parlare di mille persone, delle loro storie, senza mai fermarci un attimo a riflettere e pensare a noi. Mille parole nel vento, perché neanche una è pronunciata con il cuore. E poi il piacere di vedersi, dopo tanto tempo, certo, ma che tristezza scoprire che siamo cresciuti e che quel mondo che prima ci univa ora non esiste più. Ricordare vecchi aneddoti, passare il presente rimembrando sbiaditamente fatti accaduti, passati, sepolti. “Amore, siamo arrivati”."
"Lo guardo, segretamente. Guardo la sua barba appena rasata, sembra muschio che si aggrappa sul muro. Lo guardo, e mi sento subito serena. Le sue spalle così larghe, robuste, che sono la mia corazza. Ho freddo. Eppure il finestrino è serrato. Sento un soffio, come se provenisse dallo struscio delle ali di angeli paffuti che danzano e volteggiano sospesi. Che sensazione… Un brivido freddo, penetrante mi scivola dal labbro sul braccio e nel contempo sento il cuore pieno e tutto il corpo completo. Dalla torpedine nasce la mia pienezza. Credo sia l’amore. Cosa mi importa se siamo diversi, se poi nella nostra diversità affoghiamo il nostro essere in una cosa sola…
Piano piano il soave sobbalzare dell’auto sulla strada accidentata mi sospinge come le braccia della mamma quando da piccola mi cullavano dolcemente, e mi assopisco. Precipito in un tiepido sonno, tranquilla, serena, lieta. A vegliare su di me c’è il mio uomo, che a tratti lancia il suo sguardo premuroso sul mio corpicino, abbandonato a Morfeo. Lorenzo accende la radio. Una dolce canzone cosparge e riempie l’abitacolo della macchina, e solletica le mie orecchie, ancora deste. A volte vorrei liberarmi dei miei pensieri e rimanere nuda da ogni ragionamento per vivere senza alcuna congettura. Chissà se senza i miei pensieri sarebbe tutto una continua scoperta, una meraviglia stravolgente, una vibrazione vitale o, mummia ingiallita dal tempo, vivrei ovattata e incapace di assaporare tutto a pieno.
“Piccolina mia, stiamo per arrivare”. La voce di Lorenzo mi sveglia dal mio torpore dorato. Apro gli occhi, li sbarro: ma dove siamo? Oh! Non ci posso credere! Lorenzo è la mia stella, il sole che mi riscalda dopo ogni tempesta! Ha fatto una deviazione e mi ha portato nel posto in cui ci siamo scambiati il nostro primo bacio. Quanto tempo è passato, quanto tempo ancora passerà!
“Amore, ma sei pazzo!”. Non servono altre parole tra di noi, solo un rapido bacio prima di parcheggiare e scendere giù! Lorenzo parcheggia, compiendo ogni gesto né troppo veloce né troppo lento. Spegne il motore, spegne lo stereo, ma non spegne la nostra voglia. Apre la portiera e io sono così atterrita per lo stupore, la gioia e la sorpresa, che non riesco a trattenere una lacrima salata, giù, per la guancia. Che scema! Eppure sono queste piccole cose, questi gesti rubati al tempo e consegnati a una memoria immortale a rendermi felice e terribilmente incapace di non mostrare la mia emozione.
Lorenzo apre la mia portiera. Attento, si accorge della lacrima che, muta, senza un singhiozzo è scesa via, e con il pollice è solerte a cancellare via ogni segno sul mio volto. Mi prende per mano, mi tiene, mi guida in quel punto in cui il nostro amore appena sbocciato fece incontrare i nostri corpi. La gente passa, ci guarda, ci commenta. Ma io sento solo quella mano, morbida, amica, tenere salda la mia. E la mia mente, per un attimo, arresta la velocità dei suoi pensieri e si concentra verso la mia felicità. La gente, la gente, la gente… Guarda i nostri movimenti, lontani dalla normalità delle cose, contorcersi in una danza poetica incomprensibile a tutti. E pensare che un nostro momento così intenso, intimo, personale, si svolga dinnanzi a tutti, a quei tutti che non possono capire."
" Quei silenzi che da piccola mi pesavano perché non mi facevano sentire amata ora invece mi gratificano e mi fanno sentire a casa. Se ci fossero tra noi molte parole, troppi discorsi e dialoghi inutili, temerei che quell’alfabeto speciale di silenzi che possiamo comprendere solo noi possa essere compromesso. Pertanto, vorrei solo preservare questa nostra affinità elettiva e allontanare ogni comune percorso che inaridisca il nostro rapporto. Ecco perché ho poche parole da spendere a riguardo. Perché il mistero che aleggia sulla nostra comunicazione è in realtà la strada per accedere alla fonte del nostro amore. Essere padre è più difficile di essere madre. Il rapporto tra madre e figlio è infatti suggerito dalla stessa natura, con l’unione carnale che è inserita nel ciclo naturale del miracolo della creazione. Mentre è la natura che inserisce nel ricettacolo del grembo della madre la sua creatura, è la vita e il suo percorso che inserisce nel cuore del padre suo figlio. Quando comprendi queste leggi, che stanno alla base di equilibri reconditi e incomprensibili, apprendi che la vita non è un’equazione matematica, ma un turbinio che sfugge alla comprensione umana, alla ragione scientifica e a ogni possibilità umana di carpire tali segreti.
Sono fuori ormai. L’aria calda che già mi seduceva quando ero ancora rinchiusa dietro il mio portone, ora spavalda, mi schiaffeggia il volto. Gegè apre la portiera ed entra nell’auto. Com’è piccina, seduta sul sedile grigio. E io, io mi siedo nel mio angolo, nella porzione di palcoscenico che mi spetta. Guardo nello specchietto retrovisore, cercando di carpire la distanza che mi separa da un paletto, per decidere se posso effettuare una manovra a marcia indietro. Dal vetro, lucido e sfavillante, non scorgo la strada, né il paletto e la nostra realtà, ma intravedo solo la mia libertà. Sono alla guida di questa macchina, sono il capitano di un veliero che sta per salpare per oceani lontani.
Ricordo quando da piccola immaginavo di essere il comandante di un grande battello. Così piccola e sognatrice, non riuscivo neanche a poggiare le palme dei piedi sui pedali. Eppure sognavo e sulle ali dei miei sogni le mie giornate volavano felici. Quando mamma guidava e io le ero seduta accanto, tra le sue proteste, ricordo che azionavo sempre il dispositivo che spruzzava l’acqua sul parabrezza, e in quel momento immaginavo di essere un pirata che risponde al comando del suo capitano, che gli ordina di sparare il fuoco. Ero piccola, minuscola, una formichina della vita timorosa ed entusiasta, ma le mie giornate iniziavano e terminavano con grandi gesta."
"Quei miei tonfi densi cumuli di pensieri", edito da SensoInverso edizioni nel dicembre 2012